Recovery Plan: la Salute con l’8,8% rispetto alle risorse totali resta l’ultima ruota del carro, circa 8 miliardi in meno rispetto alla missione “inclusione e coesione” (penultima per finanziamenti).
Inoltre “Piani di azione” per i diversi progetti da definire entro due-tre anni rispetto all’utilizzo delle risorse articolato su sei anni, rischiano di ridurre le potenzialità e gli effetti delle misure in campo: i piani di azione si devono tradurre in qualcosa di subito attuabile, non diluito nel tempo.
Ancora assente il modello di governance istituzionale per il monitoraggio e l’attuazione del PNRR, come pure quello della governance della spesa sanitaria tra Stato, Regioni e ASL, con effetti su tempi di realizzazione.
“Il PNRR riserva alla missione Salute una cifra insufficiente a garantire la vera “svolta” che servirebbe per il nostro SSN, per il suo rilancio, soprattutto in vista di eventuali altri episodi pandemici che potranno verificarsi nei prossimi anni e che non dovranno più mettere in “pausa” le altre patologie com’è accaduto con il Covid. Le risorse destinate alla sanità passano da 15 MLD, cifra certificata dal Governo come già disponibile nella prima versione di Recovery Plan, a 19,7 MLD. Nessun raddoppio quindi, ma lo spostamento da una parte all’altra di risorse già presenti nella precedente versione del Recovery Plan e un’aggiunta di 4,7 MLD – dichiara Tonino Aceti Presidente di SALUTEQUITÀ, Associazione indipendente per la valutazione della qualità delle politiche per la salute, nel secondo Report dell’Associazione, dedicato al PNRR e appena pubblicato – I 19,7 miliardi restituiscono al Servizio Sanitario Pubblico solo la metà dei circa 40 miliardi di euro di mancati incrementi subiti dal fondo sanitario negli ultimi dieci anni per garantire il famoso equilibrio di finanza pubblica richiesto dalle diverse manovre che si sono succedute negli anni. Un rifinanziamento, in parte, di alcune voci fino a oggi sottostimate e lasciate alla spesa privata, non un investimento per un nuovo modello”.
Gli esempi non mancano.
L’ultima occasione di finanziamento di un programma straordinario di investimenti in edilizia e tecnologie sanitarie risale a più di 30 anni fa con l’art. 20 della Legge 67/1988, con uno stanziamento iniziale, solo da parte dello Stato, pari a ben 15,5 miliardi di euro (i 30mila miliardi di lire), gli attuali 34,4 miliardi a parità di potere di acquisto, praticamente quasi il doppio rispetto ai 19,7 miliardi destinati anche ad altre esigenze che potrebbero arrivare dall’Europa e che rappresentano il 57% delle risorse decise 33 anni fa per i soli ospedali (quest’ultime allocate su arco temporale più lungo rispetto a quello del PNRR).
Il fabbisogno iniziale di risorse stimato dal Ministero della Salute per gli interventi di edilizia sanitaria in vista della prima stesura del recovery ammontava a 34,4miliardi, di cui 14 miliardi per adeguamenti sismici e antincendio. Invece il recovery plan poi approvato dal CDM assegna per la sicurezza degli ospedali 5,6 MLD per realizzare 675 interventi di antisismica entro il 2026.
Inoltre, mentre il Recovery Plan parla di “675 interventi”, che potrebbe significare anche una molteplicità di interventi per una stessa struttura sanitaria, nel 2013 la relazione conclusiva della Commissione parlamentare di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Ssn segnalava come le strutture che necessitavano di una pluralità̀ di interventi di messa in sicurezza non fossero meno di 500.
Per il rafforzamento dei servizi territoriali e per una migliore presa in carico delle persone con fragilità (cronicità, non autosufficienza, disabilità…) vengono destinati, attraverso il Recovery Plan, 7,9 miliardi in sei anni, di cui circa 1 miliardo all’assistenza domiciliare. Una cifra insufficiente a coprire gli oltre 17 miliardi l’anno di spesa privata delle famiglie per l’assistenza sanitaria a lungo termine, assistenza domiciliare e assistenza ambulatoriale per cura e riabilitazione, certificata dalla Corte dei conti.
A rendere il quadro ancora più serio è il combinato disposto con la Legge di Bilancio 2021: infatti, se nel 2022 l’incremento del finanziamento del SSN è pari a 822,870 milioni di euro, già nel 2023, 2024 e 2025 questo si riduce a 527,070 milioni di euro per ciascuno degli anni, mentre a decorrere dal 2026 è pari a 417,870 milioni di euro l’anno. Dal 2023 sale nuovamente in cattedra la razionalizzazione della spesa (spending review- comma 404 L. 178/2020), che negli anni passati è stata confusa e declinata con un vero e proprio razionamento della spesa, dei servizi sanitari e dei diritti dei pazienti.
E anche grazie a questo il SSN si è presentato alla sfida con la pandemia da Covid-19 impreparato, con i fondamentali non in ordine, con pazienti non-Covid costretti a diventare gli esodati del SSN e con numero di decessi di pazienti Covid purtroppo tra i più alti in assoluto.
Il SSN alla prova con Covid-19 e dopo 10 anni da Bancomat di Stato e Regioni.
- L’Italia è tra i paesi con più alto tasso di mortalità per Covid-19: 107,5 decessi per 100mila abitanti (dato relativo a dicembre 2020);
- durante il primo lockdown il SSN ha fortemente ridotto l’assistenza ai pazienti NON Covid: -34 milioni di ricette rispetto al 2019 (-58%); -13,3 milioni di prestazioni per accertamenti diagnostici; -9,6 milioni di visite specialistiche; -40% di ricoveri circa 309 mila ricoveri, di cui 230.428 chirurgici; circa -700.000 ricoveri nei reparti di medicina interna, di cui il 56% relativi a pazienti cronici;
- nel 2019 rapporto tra spesa sanitaria pubblica e PIL pari al 6,5% (NADEF 2020); nel 2017 era pari al 6,6%, un valore inferiore di circa tre punti percentuali a quella in Germania (9,6%) e Francia (9,5%), di un punto percentuale rispetto al Regno Unito, e di poco superiore a quella di Spagna (6,3%), Portogallo (6,0%) e Repubblica Ceca (5,8%);
- nel 2018, l’Italia è ottava nella classifica che analizza la percentuale della popolazione adulta dell’UE-27 con esigenze insoddisfatte di visita medica. Tra i maggiori paesi europei è quella con il dato peggiore;
- nel 2018 l’Italia ha 8 regioni inadempienti rispetto all’erogazione dei LEA, con maggiore criticità nell’assistenza territoriale;
- nel 2018 (ultimo Annuario Ssn pubblicato dal Ministero della Salute), gli interventi in Assistenza domiciliare integrata dedicati ad anziani e pazienti terminali è aumentato considerevolmente, ma non il personale che li ha eseguiti: le ore dedicate a ogni intervento sono calate in media 2 ore a prestazione con punte fino a oltre 60;
- la prova è che negli ultimi otto anni, dal 2010 al 2018, il personale sanitario è calato per colpa dei blocchi del turn over legati alla spending review di oltre 42mila unità e in particolare ci sono in meno più di 500 medici e quasi 8mila infermieri, le due figure che di più sono coinvolte nell’ADI.
“Maggiori risorse per il SSN, orientate a garantire la sicurezza di tutte le strutture sanitarie, un maggiore accesso alle cure, il rafforzamento e l’innovazione dei servizi sociosanitari territoriali, l’ammodernamento tecnologico, il rafforzamento del personale sanitario e la riduzione delle disuguaglianze – conclude Aceti – per noi rappresentano “debito buono” e un investimento ad “alto rendimento” per il Paese in termini di salute, coesione sociale e crescita economica. Le future generazioni hanno diritto ad un SSN più forte, moderno, accessibile, equo, solidale e di prossimità, in grado di entrare nelle case delle persone. Non sprechiamo questa occasione che l’Europa ci mette a disposizione”.